Prefazione La prassi clinica in medicina e psichiatria tra scienza, metodologia, tecnica e arte
Paolo Curci, Cesare Secchi
RIASSUNTO
Un problema centrale e ineludibile della medicina moderna è quello di una corretta collocazione epistemologica della prassi clinica, del suo statuto metodologico, dei suoi rapporti con le discipline scientifiche e umanistiche, della sua incessante ricerca di integrazione della "dicotomia" spiegare-comprendere. In questo senso, nel panorama contemporaneo rischia di smarrirsi il peculiare aspetto valutativo della clinica che rinvia a valori individuali e sociali non riducibili al campo strettamente "scientifico". Nella Introduction à l'étude de la médecine expérimentale [1] Claude Bernard metteva lucidamente a fuoco i due poli essenziali della medicina: quello conoscitivo e quello operativo, il sapere e il saper-fare o dover-fare («la medicina... è sempre costretta ad agire») (p. 1). Tale dualità, scienza naturale e scienza dell'uomo, scienza nomotetica e disciplina idiografica*, pone la medicina in una condizione del tutto particolare (Scardovi [2], p. 48). «Come conoscenza e ricerca, essa prende avvio dalla variabilità individuale per trarne tipicità, tendenze, leggi, e cogliere e definire oggettività fenomeniche, corrispondenze funzionali, modelli causali; come azione clinica (diagnostica, prognostica e terapeutica), essa è mirata all'individuo e riconduce canoni e modelli alla dimensione individuale» [2] (p. 48), situandosi nell'intersezione fra la singolarità di ciascun paziente e l'universalità delle conoscenze mediche. Nella medicina come conoscenza e ricerca si opera una traduzione e astrazione dell'individuo in tipo, del malato in malattia, mentre nell'esercizio della professione clinica il medico «ha sempre a che fare con l'individuo»: se la garanzia della validità oggettiva «sta nel tipo, la verità si trova sempre al di fuori di questo tipo e ne differisce costantemente» (Bernard [3], p. 142 e segg.). Lo scarto tra tipo e realtà individuale è solo provvisoria e strumentale presa di distanza dall'uomo in carne e ossa, escogitata per tornare più vantaggiosamente all'uomo in carne e ossa (Valent [4], p. 52-53) [ ]. In sostanza, la «distinzione oggi più rilevante» e con conseguenze più significative non sembra tanto quella fra scienze "teoriche" e scienze "pratiche", bensì quella «tra sapere, ricerca e pratica scientifica» come osserva Hucklenbroich [5 ](p. 215): la prassi clinica al letto del malato riconosce come irrinunciabile patrimonio il sapere scientifico, ma non ne è guidata in modo rigido e totale, in quanto disciplina qualitativamente distinta. La Clinica (dal greco kliniké - tékhne - arte relativa a chi giace a letto) è quella branca della medicina che studia, diagnostica e cura le malattie* nell'uomo malato: per tale sua specifica caratteristica si situa ai «confini tra scienza, tecnica e arte» (Grmek [6], p. 7) [ ]e implica, fra l'altro, l'associazione di un saper-fare e di un sapere che, rudimentale o sofisticato, non manca mai [ ](Lanteri-Laura [7], p. 428) [ ]. È pertanto disciplina eminentemente idiografica, poiché riguarda individui ed eventi singoli. La clinica presuppone e implica una nosografia (disciplina che concerne la classificazione sistematica delle malattie, la descrizione dei quadri clinici e l'inerente attività di ricerca ispirata dai programmi nosologici), che, come dice Raineri [8], in quanto momento teoretico in grado di razionalizzare l'esperienza acquisita a contatto col malato, le conferisce un fondamento scientifico (vedi p. 6). La storia della medicina e, forse in modo ancor più significativo, il panorama attuale della pratica medica mettono in grande evidenza il contrasto fra un indirizzo che ritiene la clinica l'unica autentica scienza medica (disciplina idiografica in senso forte) e quello che invece relega la clinica in una posizione secondaria e subordinata alle scienze nomotetiche di base (biologia, biochimica, fisiologia, ecc.): disciplina idiografica, quindi, in senso debole (Federspil et al. [9], p. 44-45). [ ]Già nel 1849 Rudolph Virchow asseriva: «Se la biologia sarà completata, se noi comprenderemo esattamente le leggi della vita e le condizioni delle sue manifestazioni, se noi conosceremo con certezza tutti i cambiamenti in queste condizioni, allora noi otterremo una terapia razionale e l'unità della scienza medica sarà affermata» [10] (p. 199). Viceversa, nella tradizione medica italiana spiccano i nomi di Augusto Murri e Giacinto Viola [11], che sottolineano il significato delle scienze dell'individuale e ritengono la clinica l'unica autentica scienza in grado di afferrare e di modificare concretamente la realtà: al contrario, la fisiologia e la patologia, occupandosi di concetti generali, sarebbero solo pseudoscienze. Secondo Murri [8] «non è possibile derivare la patologia dalla fisiologia: questo è un cardine di logica empirica. Ciò che si propugna non è l'ignoranza delle scienze, ma la preminenza su tutto dell'esperienza clinica, benché sussidiata dalle notizie scientifiche» (p. 54). Sulle stesse posizioni pare collocarsi la scuola epistemologica tedesca della prima metà del secolo XX, che ritiene indispensabile differenziare nell'ambito della cosiddetta medicina "una scienza pratica" da "una scienza epistemica": la scienza pratica è vista come appartenente a un modello scientifico sui generis da tenere rigorosamente distinto sia da quello delle scienze naturali sia da quello delle scienze applicate [5] (p. 216). Tale contrasto tra disciplina idiografica in senso forte e rispettivamente in senso debole non è di scarso rilievo e non soltanto da un punto di vista storico. Infatti, il prevalere nella medicina attuale delle conoscenze sempre più complesse e settoriali e dell'inerente apparato tecnologico sempre più sofisticato condiziona in modo decisivo la relazione medico/paziente, stravolge i fondamenti dell'esperienza e della metodologia clinica, mette in discussione i modelli di riferimento e il significato della formazione. Secondo Cosmacini [12] «... il medico e il paziente perdono entrambi l'esperienza di un rapporto privilegiato, fatto di coinvolgimento reciproco. Il medico, da tale contatto diretto con il malato e il suo ambiente, arriva per gradi agli odierni eccessi di strumentazione tecnologica e di burocratizzazione che impoveriscono la situazione di rapporto personale, producendo una sorta di medicina del silenzio...»(p. 430-431). Questo percorso prende le mosse a metà del secolo scorso con l'affermarsi della "medicina sperimentale": essa riconosce il suo centro nel "laboratorio", lontano dalle corsie dell'ospedale, per giungere a determinare una specie di doppia identificazione di luoghi e di metodi, che contrappone la scientificità del laboratorio alla non scientificità del letto del malato. A tale proposito, Bernard [1 ]afferma: «Il laboratorio è il vero santuario della scienza: è lì solamente che essa cerca le spiegazioni della vita allo stato normale e patologico per mezzo dell'analisi sperimentale». In questo senso, l'arte della pratica clinica, intesa come capacità di fronte alla persona sofferente di interrogarsi, di interpretare, di sottoporre a selezione le conoscenze, di utilizzare proficuamente la relazione col paziente, pare destinata a occupare un campo sempre più ristretto, se non a scomparire a vantaggio di una medicina tutta "scientifica" e tecnologica. Nell'accezione più specifica "arte" non significa tanto l'esercizio di una professione, quanto piuttosto una disciplina, in cui il sapere è continuamente vagliato attraverso la valutazione e l'interpretazione. Perciò, come afferma Andreoni [13],«la medicina non solo è una "scienza", ma anche legittimamente un'"arte", nel senso più ampio del termine: arte dell'interpretazione - quindi, ermeneutica che si fonda sulle capacità culturali e professionali del singolo medico - e arte come insieme di tecniche specifiche, collegabili al fare umano e alla prassi, dunque a risultati precisi, valutabili in base alla loro efficacia terapeutica» (p. 195). Inoltre, la metodologia clinica* può essere intesa come una teoria dell'agire medico secundum artem, ove secundum artem non significa soltanto "tecnicamente corretto", ma anche "eticamente corretto" [5 ](p. 222). Questa attuale tendenza della medicina ripropone altresì i temi dell'oggettività e della soggettività della malattia, della dimensione biologica e di quella umanistica, della normalità statistica e della salute, del protocollo "scientifico" e della narrazione individuale. Nello statuto teorico della moderna medicina somatica, tuttavia, il passaggio da una logica di causalità lineare a una logica circolare, dal paradigma dell'agente eziologico al paradigma dell'interazione ha introdotto un modello di maggiore complessità che comporta un recupero del soggettivo, avvicinando in un certo senso la medicina alla psichiatria: la stessa biologia, secondo Oliveiro [14], «va oggi riscoprendo l'individuo, verificando la fallacia di leggi formulate per individui tipo, e rivalutandone l'unicità biologica e storica» (p. 103). La valorizzazione e l'approfondimento delle basi concettuali dell'agire clinico rappresentano a nostro parere obiettivi fondamentali della medicina contemporanea alla ricerca di una possibile cerniera tra le attività diagnostico/terapeutiche e le discipline a statuto "scientifico". Può valer la pena di segnalare che a tale argomento è stato dedicato un numero monografico di Theoretical Medicine and Bioethics (1998), significativamente intitolato «Perché la medicina dovrebbe pensare a una teoria della pratica»: oltre a un ampio dibattito sui temi in questione, vengono introdotti il concetto di teoria della pratica (l'unica che può fornire le ragioni dell'operare clinico) e quello di iato teorico, per sottolineare lo scarto tra patrimonio del sapere "scientifico" e sua applicazione nei problemi clinici. In questo contesto, il lavoro clinico diviene una sorta di "crocicchio" epistemologico, ovvero uno spazio conoscitivo, da cui originano domande di metodo e di contenuto e in cui il criterio è l'incontro e la collaborazione col paziente ai fini della cura. Spazio di conoscenza e spazio di pratica. Ivi, i portati della varie scienze nomotetiche trovano la loro applicazione e la loro verifica, nel rispetto del rigore e dell'identità di ciascuna di esse (i diversi saperi sono sempre in relazione reciproca e mai gerarchica), secondo quella che Lanteri-Laura [15] (p. 32) chiama "un'epistemologia regionale" al servizio della clinica. Secondo Galeazzi [16], «l'arte della medicina sarebbe quindi molto più complessa di un semplice e automatico trasferimento di conoscenze dal piano delle discipline nomotetiche a quello della prassi. Infatti, nel corso del lavoro clinico il medico utilizza al meglio il sapere "scientifico" nella misura in cui lo àncora, attraverso il bagaglio culturale ed esperienziale della sua formazione, alla realtà cognitivo/affettiva dell'incontro col paziente al fine della ricostituzione dello stato di salute di quest'ultimo» (p. 36). Il concetto stesso di salute appare problematico: da definizioni in negativo, come la semplice assenza di malattia, ad altre più articolate e descrittive che implicano il riferimento a valori culturali emerge con ulteriore evidenza lo scarto tra gli aspetti "scientifici" della medicina e l'arte medica. Quella della salute è, in effetti, una globale esperienza del singolo individuo non completamente riducibile ai suddetti parametri nomotetici. La psichiatria può rappresentare oggi un punto di osservazione privilegiato della riflessione sul concetto di clinica, sul suo statuto epistemologico e soprattutto sulla sua prassi. Infatti, l'attuale periodo di "rivoluzione" nel sapere e nel saper/fare (basti pensare ai più recenti indirizzi nosografici o alle linee guida dei trattamenti psicofarmacologici) comporta un nuovo declinarsi dello spazio relazionale: i protocolli per la diagnosi operazionalizzata, o l'uso del questionario (etero- e autosomministrato) richiedono specifiche e inedite articolazioni con il colloquio tradizionale, ove gioca precipuamente il "sentire" del clinico*. Così, la relazione medico/paziente, premessa e strumento di una strategia di cura finalizzata e consapevole, necessita di confronti serrati e dialettici con la nuova filosofia degli schemi terapeutici standardizzati. La diagnosi è attribuzione del paziente a una o più categorie di un sistema nosologico, ma nel contempo è agire clinico: il "fare diagnosi", come sistematica attività di riconoscimento e discriminazione, investe l'intero processo della presa in carico, nel costante tentativo di individuare qualunque elemento utile al trattamento e alla prevenzione. Tant'è vero che per l'elaborazione e la conduzione di un coerente programma terapeutico/riabilitativo è indispensabile una valutazione clinica, sincronica e diacronica, strutturata in una serie di livelli specifici e differenziati, che coinvolgono globalmente la persona del paziente e il suo ambiente socio-culturale: la condotta complessiva della cura discenderebbe, dunque, il più delle volte da una specie di diagnosi "allargata", che va ben oltre la mera assegnazione di un'etichetta nosografica. Lo spunto per il presente fascicolo di Nóo_ nasce dalla necessità di un ripensamento di certi aspetti, apparentemente scontati, dell'incontro clinico in psichiatria: il suo statuto metodologico, nonché i suoi rapporti con la medicina e le scienze nomotetiche; la sua specificità fondativa, con particolare riferimento al processo diagnostico; la sua rilevanza "etica" rispetto alla irriducibilità della sofferenza mentale. A partire, quindi, da questo denominatore comune vengono proposte alcune riflessioni dipanandone e approfondendone differenti prospettive e implicazioni. Nel lavoro di Andreoli il problematico rapporto tra nosografia e clinica dei disturbi mentali è affrontato a partire da un'analisi storica del costituirsi, tra illuminismo e positivismo, della disciplina psichiatrica e della sua costante rincorsa alle "certezze" del resto della medicina. In particolare, viene sottolineata l'aporia epistemologica relativa alla irriducibilità del "malessere morale" rispetto al sintomo oggettivabile: detta aporia ha storicamente comportato, da un lato, il ricorso a differenti modelli nosologici (Kraepelin, Griesiger, Hartmann, ...) e, dall'altro, l'assunzione di posizioni radicalmente antinosografiche. Secondo l'Autore, l'autentica novità del DSM consisterebbe nella rinuncia alla pretesa totalizzante dei precedenti sistemi classificatori: non si fa più corrispondere la malattia a una "cosa", etiopatogeneticamente fondata, ma ci si limita a inquadrarla in modo empirico su assi distinti e indipendenti, non connessi da alcuna causalità; inoltre, i criteri di categorizzazione sono strettamente convenzionali, per definizione provvisori e sottoposti a sistematica revisione. L'impostazione dell'articolo di Vella è rigorosamente fenomenologica e filosofica, come è altresì attestato dallo stile retorico/linguistico e dalla struttura formale dello scritto: una sorta di catalogo dei principali concetti fondativi, che costituiscono e circoscrivono il campo dell'operatività psichiatrica. A ciascun concetto è dedicato un paragrafo che lo definisce e lo rimanda circolarmente a tutti gli altri, secondo un taglio discorsivo di crescente pregnanza attorno all'impatto clinico col paziente: si parte, cioè, dall'individuazione dei "fatti" e degli "eventi" per arrivare - attraverso altri aspetti di grande rilievo teorico e metodologico, come, per esempio, la "tematizzazione" (l'attribuzione di significato da parte del soggetto) e la "trascendenza" (il presupposto costitutivo dell'esserci umano) - fino agli "effetti psichici dello psicofarmaco", nel senso della specifica risonanza interiore che il miglioramento sintomatico può produrre nel singolo paziente. Infine, nel loro contributo Curci e Secchi tentano di delineare gli elementi essenziali dell'atteggiamento psicoterapico, quale categoria fondante della prassi clinica, nonché del processo diagnostico. Ispirato al modello antropologico dell'"appoggio", l'atteggiamento psicoterapico avrebbe a che fare con l'assunzione da parte del curante di un abito interiore, stratificato nel tempo attraverso l'esperienza e la riflessione su di essa: un peculiare amalgama di aspirazioni etiche, empirismo artigianale, cultura scientifica e umanistica, disponibilità personale. Grazie a tale funzione della mente, lo psichiatra sarebbe in grado di modulare il flusso delle "identificazioni/separazioni" rispetto al paziente, indispensabili per una calibrata valutazione della sofferenza psichica lungo l'iter terapeutico nel suo complesso.
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