Prefazione al N° 13
Carlo Maggini
RIASSUNTO
La problematica relativa ai rapporti tra schizofrenia e configurazioni abnormi di personalità, dalla tradizione psichiatrica codificate con il termine di schizoidia o di personalità schizoide, ha costituito una delle aree tematiche più dibattute della psichiatria di questo secolo.I modelli interpretativo-esplicativi che nel tempo si sono contrapposti e succeduti (modello della "continuità", del "salto" e dell'"identità"), pur mantenendo il loro valore euristico, devono essere riconsiderati alla luce della riformulazione ad opera del DSM-III (e delle successive edizioni del manuale) della personalità schizoide (proposta in una configurazione dissonante per molti aspetti da quella acquisita nella cultura psichiatrica tradizionale) e della introduzione di una nuova categoria, il Disturbo Schizotipico di Personalità, i cui criteri diagnostici richiamano aspetti fenomenici in passato considerati propri della schizoidia, ma anche nelle forme cliniche o paucisintomatiche di schizofrenia (schizofrenia latente, simplex, borderline, ambulatoriale, pseudonevrotica). Queste due categorie diagnostiche, che nel DSM-III (e nelle edizioni successive) hanno trovato posto nel Cluster Adei Disturbi di Personalità (Asse II), si prestano ad una diversa interpretazione in senso eziopatogenetico e nosografico.Gli studi psicometrico-statistici (dimensioni psicopatologiche) e quelli di validazione esterna (familiarità, marker biologici, decorso, risposta al trattamento) sembrano indicare, infatti, l'appartenenza del Disturbo Schizotipico di Personalità allo spettro schizofrenico, così da suggerire la sua rimozione dalla sezione dei disturbi di personalità (come nell'ICD-10) e quindi dall'Asse II. Meno univoci sono invece i dati relativi al Disturbo Schizoide di Personalità: se l'affinità fenomenica di questo disturbo con la "schizotipia negativa" induce ad identificarlo con la componente più "soft" dello spettro schizofrenico (l'estremo personologico più mitigato), i dati di validazione esterna sembrano supportare una diversa conclusione autorizzando il suo mantenimento tra le condizioni di Asse II.In questa accezione il Disturbo Schizoide rivestirebbe il ruolo di "variabile moderatrice" che interagisce con i fattori di vulnerabilità alla malattia: il limitato repertorio di capacità di fronteggiare la precarietà dei sistemi di ricezione e di elaborazione delle informazioni (vulnerabilità schizotropica), proprio di questo assetto personologico, favorirebbe il determinarsi della sintomatologia schizofrenica.Quanto sopra trova riscontro nel rilievo dell'elevata frequenza di tratti schizoidi nella storia premorbosa degli schizofrenici e nella positiva correlazione che essi mostrano con un decorso ed un esito sfavorevoli. La schizoidia e la schizotipia (quest'ultima considerata il prototipo dei "milder schizophrenia-related disorders") continuano a proporsi come aree privilegiate per lo studio dell'eziopatogenesi della schizofrenia, offrendo l'opportunità di studiare la fisiopatologia della malattia in assenza di artefatti confondenti connessi al trattamento neurolettico a lungo termine, all'istituzionalizzazione o alla copresenza di una condizione psicotica cronica.Tenuto conto inoltre che la diatesi genetica alla schizofrenia si manifesta più frequentemente come tratti schizotipici (e forse anche schizoidi) che come schizofrenia, lo studio di questi disturbi di personalità tra i parenti di schizofrenici può consentire una miglior conoscenza della genetica della schizofrenia e una più appropriata identificazione del fenotipo per studi di linkage.
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