Problematiche psichiatrico-forensi nei disturbi
della nutrizione e dell’alimentazione
stefano ferracuti1, gabriele mandarelli2
1. Dipartimento di Neuroscienze Umane, Sapienza Università di Roma
2. Dipartimento Interdisciplinare di Medicina, Università A. Moro di Bari



RIASSUNTO
I disturbi della nutrizione e dell’alimentazione hanno una età di insorgenza tra i 15 e i 25 anni con una tendenza ad esordi sempre più precoci; questa fascia di età include pazienti minorenni, caratteristicamente considerati vulnerabili e legalmente incapaci di agire. In Italia, infatti, la capacità di esprimere consenso informato al trattamento si acquisisce ai 18 anni. La problematica della capacità di dare consenso, o almeno dei suoi limiti giuridici, è determinante quando si valuti l’importanza, anche rispetto ai risultati terapeutici, della comprensione e condivisione degli approcci terapeutici e di quanto il rifiuto a parte o alla totalità delle cure sia, in particolare nei casi gravi di anoressia nervosa, una problematica di frequente e difficile gestione.
I dati empirici rispetto alle capacità di autodeterminazione delle popolazioni di pazienti con AN indicano che vi è una percentuale significativa di queste pazienti che presenta ridotte capacità decisionali e questo sottogruppo sembra presentare una prognosi peggiore a medio termine. I dati empirici sono tuttavia scarsi e, ad oggi, il problema non appare aver generato particolare attenzione in ambito di ricerca psichiatrica e clinico-psicologica.
Parole chiave: disturbi della nutrizione, consenso informato, anoressia nervosa.


SUMMARY
Psychiatric-forensic problems in nutrition and eating disorders
Nutrition and eating disorders have an age of onset between 15 and 25 years and there is a tendency towards ever earlier onset; this age group includes underage patients, typically considered vulnerable and legally unable to act. In Italy, in fact, the ability to express informed consent to the processing is acquired at the age of 18. The problem of the ability to give consent, or at least of its legal limits, is crucial when evaluating the importance, also with respect to therapeutic results, of understanding and sharing therapeutic approaches and to what extent the refusal to part or all of the treatments and, particularly in severe cases of nervous anorexia, a problem that is frequently and difficult to manage.
Empirical data with respect to self-determination abilities of patient populations with NA indicate that there is a significant percentage of these patients who have impaired decision-making skills and this subgroup appears to have a worse medium-term prognosis. However, empirical data are scarce and, to date, the problem does not appear to have generated particular attention in the field of psychiatric and clinical psychological research.
Key words: nutrition disorders, informed consent, nervous anorexia.


I disturbi della nutrizione e dell’alimentazione presentano particolari problemi sotto il profilo psichiatrico-forense e medico-legale. In primo luogo essi presentano una età di insorgenza tra i 15 ed i 25 anni1 e vi è una tendenza ad esordi sempre più precoci;2 questa fascia di età include pazienti minorenni, caratteristicamente considerati vulnerabili e legalmente incapaci di agire. In Italia, infatti, la capacità di esprimere consenso informato al trattamento si acquisisce ai 18 anni. La problematica della capacità di dare consenso, o almeno dei suoi limiti giuridici, è determinante quando si valuti l’importanza, anche rispetto ai risultati terapeutici, della comprensione e condivisione degli approcci terapeutici e di quanto il rifiuto a parte o alla totalità delle cure sia, in particolare nei casi gravi di anoressia nervosa (AN), una problematica di frequente e difficile gestione.
In base ai pochi dati presenti in letteratura, appare che i livelli di capacità decisionale dei pazienti minorenni con disturbi mentali possano essere sostanzialmente conservati ed adeguati e che specifici fattori cognitivi ed affettivi siano associati alla capacità mentale di prestare consenso.3 In termini psichiatrico-forensi le difficoltà che l’AN pone presentano aspetti in comune con altre condizioni di rilevanza psichiatrica e psicologica forense, nelle quali il rifiuto di alimentarsi costituisce una problematica di rilievo, quali lo sciopero della fame dei detenuti, come anche le disposizioni circa i trattamenti di fine vita (sia salvavita di nutrizione sia di alimentazione artificiale). Si tratta, infatti, di comportamenti dove il corpo è utilizzato come mezzo per esprimere in forma radicale un disagio. È evidente che i meccanismi psicologici alla base, specialmente in termini di volontà, siano differenti nelle diverse condizioni, sebbene, poi, l’attenzione spesso ricada sull’aspetto alimentare e ponderale, generando difficoltà terapeutiche, con frequenti implicazioni psichiatrico-forensi.


problematiche di consenso informato
Volendo sintetizzare i principi sottesi ad un valido consenso informato si possono indicare tre parametri fondamentali:
1) la completezza delle informazioni ricevute,
2) la libertà di scelta,
3) la presenza di capacità mentale di decidere.4

Utilizzando un punto di vista legale si potrebbe affermare, in senso ampio, che a meno che un medico non illustri al paziente, o al suo legale rappresentante, tutte le informazioni necessarie prima di intraprendere una qualsiasi procedura diagnostica, terapeutica o sperimentale, il paziente potrebbe essere danneggiato dalla medesima procedura, seppure perfettamente eseguita dal punto di vista tecnico, e potrebbe pertanto rivalersi nei confronti del medico nel caso fosse in grado di dimostrare qualche tipo di danno causato dalla condotta, attiva od omissiva, dello stesso.5
Esistono due posizioni sulle quali è possibile fondare l’aspetto etico della dottrina del consenso informato: la prima è nota come deontologica, la seconda come consequenziale. Secondo l’impostazione deontologica, la dottrina del consenso informato richiama ad un dovere naturale di ciascun essere umano nei confronti di un altro essere umano. L’impostazione consequenziale pone invece l’accento sugli effetti benefici che l’applicazione del consenso informato garantisce, non solo sui diretti interessati, ma sulla società in generale. Al di là delle formulazioni, la dottrina etica del consenso informato risiede nella visione del paziente quale persona autonoma e titolare del diritto di prendere decisioni che siano basate su informazioni rilevanti ed esaustive fornite da un medico.
Sul piano clinico la valutazione della capacità di prestare consenso informato corrisponde specularmente ad un’altra capacità complementare, ovverosia quella di prestare un valido diniego informato. Tale possibilità nasce dalla natura libera delle scelte in campo medico, al di là delle poche eccezioni previste dalla legge, e trova il suo presupposto giuridico nel combinato disposto degli art. 2, 13 e 32 della carta costituzionale,a ossia nel riconoscimento dei diritti inviolabili dell’uomo e delle libertà individuali, del diritto alla salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività e del contemporaneo divieto di essere sottoposti a cure contro la propria volontà. Tali dettami sono stati peraltro esplicitamente richiamati nella recente legge 219 del 2017, in tema di consenso informato e disposizioni anticipate di trattamento.
È da sottolineare come la relazione tra disturbo mentale e livello di alterazione delle capacità decisionali ai fini del consenso sia associata al funzionamento cognitivo del paziente, all’insight, alle caratteristiche e all’intensità del quadro psicopatologico in atto più che alla diagnosi psichiatrica in sé.6-11 Difatti anche in popolazioni di pazienti affetti da schizofrenia diversi studi hanno dimostrato la presenza di una notevole eterogeneità nella capacità di prestare consenso,8,12,13 evidenziando come la “capacità mentale” vada distinta dalla “salute mentale”.
La prima è un costrutto multidimensionale costituente il determinante generale dell’abilità di assumere una decisione autonoma e valida, la seconda riguarda le possibili alterazioni dell’equilibrio mentale. Questi due elementi sono meno consequenziali di quanto il senso comune possa ritenere,14 e di conseguenza un paziente affetto da un disturbo mentale può rifiutare, facendo l’esempio più estremo, anche un intervento medico-chirurgico salvavita, se tale rifiuto risulti motivato con un’evidente comprensione dello stato delle cose ed una chiara consapevolezza delle conseguenze.15
I disturbi dell’alimentazione, con particolare riferimento all’AN, costituiscono una problematica deontologica, etica e potenzialmente anche di responsabilità professionale, proprio alla luce del frequente diniego del trattamento che i pazienti con AN pongono, specie nei casi più gravi e caratterizzati da complicanze mediche.
Nonostante la valutazione standardizzata della capacità decisionale non faccia parte della routine clinica dei pazienti con AN vi sono alcuni studi16-18 che hanno utilizzato la MacArthur Competence Assessment Tool for Treatment (MacCAT-T)19 con risultati promettenti in termini di assessment, come sarà in seguito illustrato.
Un approccio multidimensionale come quello previsto dalla MacCAT-T consente di individuare in ciascun paziente quali sono gli aspetti eventualmente più deficitari in termini di capacità decisionale. In particolare tale strumento di valutazione consente di misurare, su 4 sottoscale, la capacità
a) di comprensione delle caratteristiche diagnostiche e di decorso oltre che del trattamento con i relativi rischi e benefici,
b) di valutare le informazioni diagnostiche e terapeutiche come rispondenti alla propria attuale condizione percepita, c) di effettuare un ragionamento logico deduttivo, coerente e caratterizzato dall’individuazione di specifici effetti delle scelte terapeutiche nella propria vita, e d) di esprimere una scelta consistente e non ambivalente.

È noto come una delle caratteristiche che frequentemente si riscontrano, in particolare nei pazienti affetti da AN, sia costituita dalla tendenza a sottovalutare o negare la gravità della propria condizione, tanto più quando si caratterizza per alterazioni metaboliche gravi, con prognosi quoad valetudinem e quoad vitam.
Volendo ipotizzare una generalizzazione, si potrebbe affermare che la mancanza di riconoscimento delle implicazioni della malattia, compresi rischi attuali e concreti per la salute o per la vita, possa associarsi ed essere espressione di incapacità a prestare un valido consenso o diniego alle cure. In realtà, analogamente a quanto accade in altri disturbi psichiatrici, i livelli di capacità decisionale dei pazienti possono variare nel tempo, risentire di fattori cognitivi, metacognitivi e situazionali, rendendo particolarmente laborioso e difficile impostare un trattamento, sotteso da un valido consenso che sia stabile nel tempo ed appropriato a gestire in modo ineccepibile, sia sul piano clinico che medico legale, la condizione clinica.
La problematica della corretta gestione di pazienti affetti da AN che pongono in serio pericolo la propria vita, per via del rifiuto sistematico di alimentarsi, è decisamente complessa, per via di una serie di fattori che si sovrappongono, complicando progressivamente il giudizio. Clinicamente è infrequente ravvisare la presenza di una componente a carattere francamente delirante, e sovente l’unica forma di trattamento, intenso nel senso più ampio, che viene rifiutata è il cibo,20 per cui non può essere immediata, né scontata, la dimostrazione della presenza delle condizioni enunciate nell’art. 34 della Legge 833/1978b previste per l’effettuazione di un trattamento sanitario obbligatorio (TSO) per malattia mentale. Tuttavia, almeno teoricamente, il TSO, in base ai presupposti di legge, potrebbe essere applicabile anche ai disturbi dell’alimentazione, considerando che il legislatore italiano non ha previsto distinzioni tra le varie patologie mentali e perciò i disturbi dell’alimentazione e in particolare l’AN sono includibili nelle condizioni nelle quali si può applicare un TSO, laddove sussistano tutti gli altri criteri.
Nella pratica ciò avviene assai di rado, anche se vi sono state proposte per creare una forma specifica di TSO per la condizione di anoressiac e il problema sia stato posto con decisione in ambito psichiatrico.21 D’altro canto, l’AN si associa alla mortalità più elevata tra le patologie psichiatriche.22-25 Uno studio di metanalisi, che ha considerato i valori di Standard Mortality Rate (SMR),22 ha mostrato un valore medio di SMR maggiore di 10. Il più recente studio di Rosling24 ha evidenziato come l’SMR aumenti quando i pazienti arrivano a valori di Indice di Massa Corporea (IMC) minori di 11 (fino a picchi SMR di 44,6 per un IMC < 10,5).
Si comprende perciò il motivo per il quale vi sia una pressione sociale ad intervenire, anche in termini imperativi, al fine di impedire una evoluzione infausta della condizione. Nei Paesi dove esiste una legislazione relativa al trattamento involontario dei disturbi alimentari la percentuale di provvedimenti coattivi oscilla tra il 13 e il 44%.26,27 Se in campo psichiatrico le problematiche riguardo il consenso sono notevoli, quando si entra nell’ambito dei disturbi dell’alimentazione, in particolare dell’AN, i dubbi da un punto di vista clinico, etico e legale si moltiplicano.28-31 Una recente rassegna sul trattamento involontario nei disturbi dell’alimentazione ha concluso che è necessario valutare eventuali comorbilità, il tipo di sintomi e la durata di malattia, dal momento che un trattamento involontario per questo tipo di condizione può essere maggiormente giustificato in casi in cui la durata di malattia è breve,32 mentre trova minore giustificazione nei casi con lunga durata di malattia.
A complicare ulteriormente il panorama la recente legge: “Norme in materia di consenso informato e disposizioni anticipate di trattamento” del 17.12.2017, n. 219, definendo una problematica che era stata oggetto di ampie e accese discussioni relativa alla natura trattamentale o meno dell’alimentazione artificiale, ha stabilito che (art. 1): “Ai fini della presente legge, sono considerati trattamenti sanitari la nutrizione artificiale e l’idratazione artificiale, in quanto somministrazione, su prescrizione medica, di nutrienti mediante dispositivi medici”.
Tale impostazione normativa tematizza, con chiarezza, la natura di trattamento a tutti gli effetti della nutrizione e idratazione artificiali, con evidenti ricadute su possibili procedure di alimentazione forzata, che costituiscono poi il principale problema etico su cui sorgono le principali problematiche relative all’AN. La legge è stata inviata alla Consulta per un parere di costituzionalità e la Corte Costituzionale, il 24.10.2018 ha chiesto al Parlamento di legiferare, in maniera più chiara, sul problema, sebbene non vi sia stata risposta alcuna da parte della politica. La decisione recente del Comitato Etico della Regione Marche, con la successiva opposizione dell’Assessore alla Sanità relativamente ad una richiesta di trattamento di fine vita da parte di un paziente tetraplegico, evidenza le difficoltà attualmente presenti su queste tematiche.


persone che rifiutano l’alimentazione
pur non soffrendo primariamente di anoressia nervosa
Un’altra situazione che presenta evidenti affinità psichiatrico-forensi con l’AN si ha allorché uno psichiatra o un medico-legale deve valutare un detenuto che abbia presentato un notevole calo ponderale nel corso della detenzione ai fini del giudizio di compatibilità con il regime carcerario. La problematica clinica è, ovviamente, radicalmente diversa. In questi casi, numerosi fattori che solitamente non sono considerati in situazioni cliniche routinarie divengono, invece, rilevanti. La posizione processuale del detenuto è una variabile giuridica che si rivela spesso di rilievo ai fini clinici dal momento che può influenzare, e non di poco, la presentazione clinica e la prognosi della condizione, quindi la conseguente condotta dell’apparato gestionale del detenuto, ivi compresi i sanitari. Questa persona, anche in assenza di una storia psichiatrica precedente, può sviluppare un importante disturbo dell’adattamento con sintomatologia mista di tipo ansioso e depressivo, o un disturbo depressivo maggiore, con secondario significativo calo ponderale. 
In questi casi vi è spesso la considerazione da parte dei sanitari che la condizione depressiva sia parafisiologica, giacché è straordinariamente frequente uno sviluppo de-pressivo in un detenuto, in ragione della natura afflittiva della privazione della libertà personale. Perciò, salvo che il soggetto non abbia una precedente storia di depressione o di disturbi psichiatrici, vi potrebbe essere una tendenza alla minimizzazione della gravità della condizione clinica rilevata, considerando anche la frequenza con cui condotte manipolatorie associate al calo ponderale al fine di ottenere vantaggi processuali si verificano, il che, evidentemente, produce rilevanti problematiche valutative.
Il problema diagnostico è anch’esso complesso. Nelle forme depressive in ambito carcerario è importante tenere conto delle componenti legate ad aspetti di personalità. Una delle situazioni di maggiore frequenza clinica nei detenuti in attesa di giudizio è data dalla presenza di un disturbo di personalità e di una problematica legata ad uno disturbo da uso di sostanze. Questi pazienti, con il protrarsi della carcerazione sviluppano spesso un disturbo dell’adattamento con sintomi ansiosi/depressivi. I confini tra questa condizione – esasperata dalle condizioni di vita in carcere, molto variabili da istituto a istitutod – e un disturbo depressivo, sono assai labili, e per giunta questi quadri si accompagnano a quadri psicosomatici che comportano talora un significativo calo ponderale,33 il quale può raggiungere valori così elevati da costituire un ulteriore fattore d’aggravamento e preoccupazione. Questo elemento complica la diagnosi differenziale con la depressione maggiore. Il tipo di disturbo di personalità del detenuto e la sua precedente carriera criminale sono ulteriori fattori di valutazione della prognosi delle condizioni depressive nei detenuti in attesa di giudizio.
Vi è perciò una difficoltà evidente a classificare adeguatamente queste diverse condizioni accumunate dal rifiuto del cibo protratto sino al punto da mettere a rischio la vita stessa. Vale la pena interrogarsi sul perché una paziente con AN che muoia di inedia non dia di solito luogo ad un procedimento giudiziario nei confronti dei medici che non hanno proposto e attuato un TSO con alimentazione forzata e, invece, un detenuto che si rifiuta di alimentarsi perché è comprensibilmente esasperato per una condizione detentiva che si protrae lungamente senza che vi sia stato ancora un giudizio invece conduca, sovente, ad un procedimento per responsabilità professionale nei confronti dei medici che lo assistevano.
A parere di chi scrive tra il detenuto che sceglie di non alimentarsi per protesta ed una paziente con AN, la cui condotta si associa, ed è espressione di, una distorsione dell’immagine corporea, vi è un maggior grado di libertà di scelta nel primo rispetto alla seconda. È evidente che il conflitto tra il principio di beneficialità e l’autonomia della persona in questi casi diviene esasperato. Parte del problema tuttavia deriva dalla mancanza di una definizione del concetto di “sciopero della fame” nel sistema legislativo italiano.
La posizione per la quale in un detenuto che rifiuta l’alimentazione per ragioni giudiziarie o politiche vada privilegiato il principio dell’autonomia è in linea con l’art. 6 della Dichiarazione di Tokio dell’Associazione Medica Mondiale,e che afferma: “Se un detenuto rifiuta il nutrimento ed è considerato dal medico in grado di formulare un giudizio inalterato e razionale sulle conseguenze di tale rifiuto volontario di nutrimento, non deve essere nutrito artificialmente, come stabilito nella Dichiarazione di Malta della WMA sugli scioperi della fame. La decisione sulla capacità del detenuto di formare un tale giudizio dovrebbe essere confermata da almeno un altro medico indipendente. Le conseguenze del rifiuto del nutrimento saranno spiegate dal medico al detenuto”.
Questo principio è stato ribadito nel 1988 dal WHO e nello stesso anno dal Consiglio dei Ministri della CEE (CE.98.008, art. 60/63). Anche a fronte di queste dichiarazioni di principio vi sono situazioni, come quella che si è determinata nel campo di prigionia di Guantánamo,34,35 dove il principio dell’autonomia viene superato dal principio della beneficialità, sebbene per ragioni esclusivamente politiche.
A nostro parere vi è necessità che sia fatta chiarezza in termini di definizione psichiatrico-forense delle situazioni che, effettivamente, delimitano questo complesso spazio di intervento medico-psichiatrico. La vita dei detenuti, come anche quella dei pazienti con AN, è un bene troppo prezioso perché il problema sia affrontato di volta in volta, sull’onda di una situazione critica che non trova risoluzione e dove, spesso, un esito infausto, oltre al dolore prodotto dal decesso della persona, ha anche come conseguenza un procedimento di responsabilità professionale. Il problema è, a nostro parere, addirittura urgente, dal momento che il passaggio della Sanità Penitenziaria nel SSN è compiuto da tempo, e i Dipartimenti di Salute Mentale hanno la responsabilità diretta dei detenuti e delle loro condizioni di salute mentale.


dati empirici sulla capacità decisionale
nella anoressia nervosa
La ricerca sulla capacità di prestare consenso informato nei disturbi dell’alimentazione è incentrata prevalentemente sull’AN. Uno studio finalizzato a valutare la capacità di rifiutare il trattamento condotto su un piccolo campione di 10 pazienti con AN ha evidenziato una non piena capacità di tale modello di cogliere le difficoltà decisionali delle pazienti con AN.36,37 I risultati ottenuti alla MacCAT-T evidenziavano una buona comprensione da parte delle pazienti della patologia, delle sue conseguenze, e del trattamento che veniva loro offerto.
Un ulteriore studio condotto su adolescenti con AN38 ha utilizzato la MacCAT-T, su una popolazione di 35 pazienti (età media di 14,9 anni) confrontate con 40 controlli sani. Ai partecipanti di questo studio sono state presentate due vignette che rappresentavano individui con due tipologie di malattia. Le partecipanti dovevano ipotizzare di avere: la scoliosi (malattia medica) e la depressione (malattia psichiatrica). Per ogni malattia si è prima proceduto con una fase informativa e successivamente con due alternative terapeutiche, infine si è svolta l’intervista semistrutturata MacCAT-T che, nelle pazienti affette da AN, ha riguardato anche la loro malattia. Dei quattro aspetti valutati dall’intervista, sono riportati solamente i risultati per le scale “ragionamento”. Per gli altri tre è riferito che non è stata individuata alcuna variazione rispetto ai controlli. Secondo gli autori chi è affetto da AN ha maggiori difficoltà ad impegnarsi in un “ragionamento consequenziale”, è meno in grado di elaborare le conseguenze quotidiane delle proprie decisioni e di prendere decisioni coerenti riguardo le vignette utilizzate per lo studio. Sarebbero inoltre presenti maggiori difficoltà nel ragionamento comparativo e nel ragionamento generale quando la propria malattia è confrontata a quella ipotetica. La media del punteggio alla scala “ragionamento” era comunque di 4,56 su 8, pertanto un punteggio relativamente alto.38 Gli autori interpretano ciò con il fatto che molte pazienti percepiscono la malattia come parte integrante della propria identità, contribuendo alla sua ego-sintonicità, e questo rende difficile mettere a confronto i pro e i contro di accettare o rifiutare un trattamento.
Uno studio del 2016 di Elzakkers et al.16 ha applicato la valutazione con MacCAT-T ad un campione di 70 donne affette da AN, considerando anche le variabili collegate all’IMC, al punteggio alla EDE, la SCID-I, la Beck, la Stai e la Toronto Alexithymia Scale. Le partecipanti hanno anche effettuato una valutazione neuropsicologica con lo Iowa Gambling test, il Wisconsin Cart Sorting Test e la Figura di Rey. Gli autori riportano una percentuale del 34% di pazienti con ridotta capacità decisionale, identificabile specialmente alla scala Valutazione della MacCAT-T. Queste pazienti presentavano una media di IMC di 14,2. Tuttavia, un’ampia percentuale di pazienti con IMC molto basso manteneva buone capacità decisionali. I dati psicopatologici non differivano tra le pazienti con capacità decisionale conservata o meno. Neuropsicologicamente le pazienti con capacità decisionale conservata presentavano una migliore prestazione allo Iowa e al Wisconsin Card Sorting Test senza che fossero evidenziabili correlazioni tra i punteggi neuropsicologici e quelli psicopatologici. Gli autori evidenziano perciò che variabili come l’IMC e la storia personale delle pazienti vanno integrati con le capacità di mentalizzazione, lo stato emozionale e la capacità di valutazione della condizione e del trattamento. I trattamenti dovrebbero essere finalizzati a incorporare moduli per migliorare la regolazione emotiva e le capacità neuropsicologiche.
Successivamente gli stessi autori17 valutando lo stesso campione longitudinalmente hanno dimostrato come nel gruppo con ridotta capacità decisionale la prognosi fosse peggiore e come il punteggio allo Iowa Gambling Test, indipendentemente dal IMC, fosse indicativo di ridotta capacità decisionale. Peraltro, la capacità decisionale non migliorava con l’aumento di peso. Sullo stesso campione gli autori18 hanno valutato la concordanza tra i giudizi clinici di capacità con i risultati della MacCAT-T. La percentuale di pazienti valutati come capaci era pressoché uguale, ma le misure cliniche e quelle derivanti dall’intervista semi strutturata erano solo moderatamente sovrapponibili.
Si tratta, complessivamente, di poche evidenze iniziali derivanti da analisi su campioni numericamente limitati, che indicano comunque risultati in parte sovrapponibili ad altri campioni di pazienti psichiatrici con diagnosi differenti, pur potendosi ipotizzare alcune specificità. In particolare, un’eterogeneità nei livelli di capacità decisionale, l’importanza delle funzioni esecutive,39 e la possibile maggiore rilevanza nell’AN di specifiche componenti di fattori metacognitivi ed emozionali.


conclusioni
I dati empirici rispetto alle capacità di autodeterminazione delle popolazioni di pazienti con AN indicano che vi è una percentuale significativa di queste pazienti che presenta ridotte capacità decisionali e questo sottogruppo sembra presentare una prognosi peggiore a medio termine. I dati empirici sono tuttavia scarsi e, ad oggi, il problema non appare aver generato particolare attenzione in ambito di ricerca psichiatrica e clinico-psicologica.
Per quanto concerne l’identificazione di quali siano i pazienti con AN che i clinici ritengano abbiano bisogno di un trattamento obbligatorio, vi sono dati di letteratura che indicano che si tratti di coloro che hanno maggiori comorbilità psichiatriche, un maggior numero di ricoveri in anamnesi e soprattutto un IMC all’entrata minore,40-44 come anche una minore storia di malattia.32 Altri dati per ora inconsistenti tra diversi studi sono stati rilevati in relazione alla presenza di abusi fisici/sessuali durante l’infanzia e di atti di autolesionismo.40,45 I ricoveri obbligatori nella AN appaiono avere una durata maggiore.45 L’aumento di peso è stato o lievemente maggiore o uguale rispetto a quello ottenuto dai pazienti volontari.40,45 Il trattamento obbligatorio si può accompagnare anche a pratiche di contenimento, ad esempio per evitare l’eccessiva attività fisica o le condotte di eliminazione -pratiche che possono essere anche attuale volontariamente previo consenso del paziente- o di nutrimento coattivo attraverso il sondino naso-gastrico. Anche il rischio di una sindrome da re-feeding. può esserne indicazione. Difatti, in caso di grave defedazione (IMC di 10-12 o IMC 7.8) la rialimentazione deve essere lenta e calibrata,46,47 e può accompagnarsi ad alcune restrizioni della libertà.
Per tutti questi motivi gli operatori sanitari coinvolti nella cura possono essere preoccupati nell’imporre trattamenti terapeutici a prescindere dal fatto che credano oppure no nella loro efficacia.48 Il timore maggiore è che in questo modo si danneggi irrimediabilmente il rapporto medico-paziente. Ciò sembrerebbe essere contraddetto da uno studio sul grado di coercizione percepito, condotto su 139 pazienti ricoverate per un disturbo alimentare.49 Circa la metà dei pazienti con disturbi alimentari che inizialmente avevano negato la necessitò di trattamento, modificavano infatti la propria opinione dopo due settimane di ospedalizzazione, fornendo quindi un’ipotesi di presupposto etico per un atteggiamento moderatamente paternalistico, quanto meno in una fase preliminare del trattamento ospedaliero.49 La percezione di coercizione all’ammissione non è risultata inoltre predittiva dell’impegno nel follow-up.50 
Alcuni autori sostengono che il fatto di essere costretti ad assumere cibo possa aiutare il paziente a rendersi conto della gravità della situazione e inoltre possa ridurre il senso di colpa quando accetta di nutrirsi.40 Tutte queste considerazioni hanno portato anche a ipotizzare l’eventualità di non attendere le condizioni critiche peggiori per un eventuale TSO, poiché il rischio per eventi acuti e inaspettati, specie cardiologici, è sempre presente.40,51 Queste considerazioni non sono comunque condivise da tutti i clinici che si occupano di AN. In altre legislature, come quella inglese o statunitense15 e quella australiana43 specifiche sezioni delle leggi sanitarie sono dedicate all’anoressia permettendo all’operatore di avere almeno qualche indicazione, soprattutto nei casi più controversi come nelle donne anoressiche in stato di gravidanza o in pazienti adolescenti.52 Queste ultime costituiscono il 90% delle persone affette da AN,53 e per età si trovano nel limbo tra l’impossibilità legale di scegliere delle proprie cure e il diritto acquisito, nonostante i dati empirici evidenzino che anche in questa popolazione la capacità decisionale può essere ampiamente conservata e adeguata.3 
Anche i pazienti ricoverati volontariamente pongono in realtà grandi difficoltà nella loro gestione. La loro ambivalenza nell’accettare e seguire un progetto di alimentazione, la possibilità di fughe dal reparto, l’eccessiva attività fisica, i comportamenti compensatori o di eliminazione, a volte possono portare a considerare un intervento legale per poter rinforzare le strategie di intervento previste dall’equipe medica, e quindi arrivare fino al TSO. Il problema non riguarda esclusivamente le pazienti con AN, ma include altre popolazioni, come alcuni detenuti, anche se i presupposti clinici sono radicalmente diversi. Il legislatore italiano, con l’inerzia che lo contraddistingue, ha lasciato del tutto irrisolto il problema della coercizione all’alimentazione in situazioni limite, come quelle poste da alcune pazienti con AN e da alcuni detenuti.
Riteniamo che il presupposto su cui di dovrebbe basare il giudizio sulla possibilità di un intervento coercitivo in una persona che rifiuta l’alimentazione, quale sia la causa che induce il rifiuto all’assunzione di cibo, o di liquidi, debba basarsi sulla capacità decisionale della persona che attua il comportamento. Questa posizione è condivisa da altri autori i quali sostengono che esistono condizioni in cui ha un senso rispettare il diritto del rifiuto del paziente a un trattamento salva vita, anche se questo porta sicuramente alla morte; è necessario tener presente: la cronicità, la severità, la presenza di danni organici irreversibili, il numero di trattamenti effettuati, in combinazione con la dimostrata capacità del paziente di saper “valutare” la propria situazione.28,29 Solo queste considerazioni possono permettere agli operatori sanitari di agire eticamente, dal momento che la situazione legislativa appare certamente molto mal definita e ampiamente contraddittoria.

a Costituzione della Repubblica italiana. Art. 2. La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.
Art. 13. La libertà personale è inviolabile. Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dall’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge. In casi eccezionali di necessità ed urgenza, indicati tassativamente dalla legge, l’autorità di pubblica sicurezza può adottare provvedimenti provvisori, che devono

essere comunicati entro quarantotto ore all’autorità giudiziaria e, se questa non li convalida nelle successive quarantotto ore, si intendono revocati e restano privi di ogni effetto. È punita ogni violenza fisica e m orale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà. La legge stabilisce i limiti massimi della carcerazione preventiva.
Art. 32. La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.ß


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