Prefazione al N° 20
Massimo Clerici, Emilio Sacchetti
RIASSUNTO
L'area delle tossicodipendenze ha assunto nuovamente particolare rilevanza in questi ultimi anni a seguito di una radicale riforma di settore avvenuta con la legge n° 309 del 1990 e le sue successive integrazioni. La forte richiesta sociale di intervento sul fenomeno ha portato alla messa a regime di Servizi capillarmente diffusi su tutto il territorio nazionale - i cosiddetti SerT - costituiti da équipe di lavoro multidisciplinari nelle quali, però, lo psichiatra non è elemento indispensabile, né la sua specificità sembra tantomeno avvantaggiarlo nel raggiungimento della responsabilità di Servizio. Questa situazione è, per certi versi, il "punto di arrivo" di un'evoluzione storica del fenomeno, lunga e stratificata, ma anche tipicamente italiana e derivante, più che da un dibattito professionale clinico e scientifico, dai cambiamenti culturali e legislativi determinati dal variare dell'approccio sociale al fenomeno e che guidano, conseguentemente, la posizione nei confronti delle sostanze in tutti i Paesi industriali avanzati [1,4]. Parallelamente, anche la storia degli operatori di settore - tracciata, in Italia, da "percorsi" estremamente diversificati che non poco incidono sull'identità attuale del SerT - è segnata da profonde inversioni di rotta i cui elementi-chiave ancora oggi arrivano a influenzare la scelta delle metodologie terapeutiche e l'organizzazione clinica. Tra questi elementi-chiave dobbiamo ricordare soprattutto: 1. Il permanere di una sostanziale estromissione della psichiatria da questo settore che data ormai dalla prima legge di riordino (n° 685/1975) e che è avvenuta contemporaneamente ad un periodo di profonda crisi e di ridiscussione della psichiatria stessa nel corso degli anni Settanta: tale situazione non facilita certo, neppure oggi, la riappropriazione - da parte degli stessi psichiatri - di questa nicchia, come peraltro delle aree cliniche progressivamente abbandonate o erose da altre professionalità. 2. Il ruolo quasi totalmente vicariante assunto dal cosiddetto "privato sociale" in questo settore: un privato di stampo pressoché esclusivamente solidaristico - la costellazione delle comunità terapeutiche - che non ha certo contribuito a valorizzare un approccio professionale al fenomeno, come è avvenuto in altri Paesi. 3. A livello di opinione pubblica, il perdurare (molto oltre la durata fisiologica riscontrabile in altri Paesi [5-7]) di un dibattito meramente ideologico, ascientifico e spesso irriducibilmente antimedico sulle cause del fenomeno e sulle opzioni terapeutiche destinate ad affrontarlo; tale dibattito è stato permeato da un riduzionismo eziologico e terapeutico centrato prioritariamente su una visione del "mercato delle sostanze" spesso anteposta alla valutazione della sofferenza biopsicosociale del singolo. A questo proposito non si può trascurare di citare, tra gli altri, l'interminabile, e sostanzialmente improduttivo, dibattito sull'esclusività delle monoterapie e sulla loro presunta efficacia, ora in relazione all'impiego del metadone, ora per quanto riguarda le comunità terapeutiche [6,8-9]. Gli elementi-chiave finora citati hanno contrastato la necessaria evoluzione tecnica, scientifica e professionale di un dibattito che - anche nei risvolti dell'ultima Conferenza Nazionale governativa "sui problemi connessi con la diffusione delle sostanze stupefacenti e psicotrope e sull'alcooldipendenza" (Napoli, 1998) - continua ad arrovellarsi soprattutto in relazione al tema della depenalizzazione e della liberalizzazione delle droghe, trascurando invece gli aspetti clinici e riabilitativi [10-11]. Oggi alcuni elementi di tale panorama stanno lentamente cambiando. Nel processo diagnostico e nella selezione dei programmi rivolti ai soggetti portatori di un disturbo da uso di sostanze l'apporto multidisciplinare risulta un paradigma insostituibile della prassi clinica; ci sembra che il collante di tale approccio non possa che risultare la "rilettura" biopsicosociale delle condizioni di abuso e dipendenza. In questa dimensione proprio la disciplina psichiatrica - intesa come area medica che tutela la salute mentale della collettività muovendosi all'interno di "matrici" complesse che mirano a salvaguardare l'unitarietà delle differenti componenti messe in gioco nel difficile equilibrio salute/malattia e nel raggiungimento/mantenimento della migliore qualità di vita possibile - possiede, senza dubbio, le più valide opportunità di offrire i contributi necessari. In questo senso anche i sempre più usati termini di doppia diagnosi nei disturbi correlati all'impiego di sostanze [12] o di comorbidità (per un'approfondita analisi di tali aspetti in ambito psicopatologico si rimanda, a questo proposito, al numero 1/98 di Nóo_) - che tanto hanno pesato negli ultimi anni in direzione di un recupero della risorsa e della "competenza" psichiatrica in questo settore - finiscono forse per perdere parzialmente di valore e risultare esclusivamente come un artificio per recuperare la dimensione psicopatologica della tossicodipendenza. La scissione avvenuta in Italia tra tossicodipendenze e psichiatria potrebbe allora ricomporsi, ma non nel senso - ancora una volta - di una riunificazione meramente organizzativo-amministrativa nella gestione dei Servizi (obiettivo, questo, che oggi risulta improponibile): si tratterebbe, piuttosto, del recupero e dell'impiego di concetti, risorse e modelli che la psichiatria ha impiegato, quantomeno nell'ultimo decennio, nello sviluppo di un approccio biomedico e psicosociale - il più possibile scientifico e rigoroso - al disagio psichico nelle sue dimensioni terapeutiche, riabilitative e preventive e che è in grado, evidentemente, di trasferire alla cura delle differenti manifestazioni di cui tale disagio è espressione [3-5,9,13]. La situazione esistente, parzialmente definitasi solo dall'inizio degli anni Novanta e, come abbiamo visto, a tutt'oggi risultante da una lunga fase di contraddizioni e di conflittualità, è ancora fragile [14-15]. La permanente connotazione di emergenza sociale del fenomeno, la comparsa di nuove sostanze e la profonda incertezza su come affrontarle [9,16] o le durature lacerazioni che sono seguite alla forzatura - dicotomica - tra medico e sociale o tra terapeutico e custodialistico rischiano ancora di rallentare l'auspicato processo di crescita del settore. Un parziale antidoto in questa direzione ci sembra, forse immodestamente, questo numero di Nóo_; si tratta di un volume un po' diverso dal solito, sia per tipologia di contributi, sia per la centratura esclusivamente italiana degli stessi. Abbiamo pensato di proporre su questo tema, infatti, alcune riflessioni da parte di quelli che sono oggi alcuni tra i più collaudati laboratori di sperimentazione in ambito di "doppia diagnosi" nel nostro Paese. I gruppi di lavoro qui presenti hanno valorizzato infatti - a partire da una vastissima letteratura teorica e sperimentale a disposizione - un approccio clinico costantemente proiettato nella ricerca e nel confronto di dati e, parallelamente, in linea con quanto ci deriva dalle esperienze internazionali. La doppia diagnosi rappresenta oggi, per molti Servizi per le tossicodipendenze, un'importante sfida per il recupero di una dimensione psicopatologica tanto disattesa [1,5,12]. Nel contempo, in ambito psichiatrico, la rilevanza epidemiologica del fenomeno [11,17] e le sue costanti ricadute su decorso ed esiti dei trattamenti rivolti ai pazienti che affluiscono primariamente ai diversi Servizi del DSM, non può non orientare gli psichiatri ad una revisione di quanto l'impiego delle sostanze finisca per pesare nel proprio lavoro e sollecitare nuove e sempre più valide opportunità di integrazione tra Servizi o, addirittura, la costituzione di nuove nicchie di intervento specialistico da sperimentare nel prossimo futuro.
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