Introduzione al N° 6
Gaspare Vella, Alberto Siracusano
RIASSUNTO
Gli equivoci dei risultati delle terapie in psichiatria La psichiatria, come tutta la medicina, attraversa un periodo particolarmente problematico, sottoposta com'è a forti pressioni interne (nuove patologie, nuove nosografie, nuove metodologie, nuovi farmaci, nuove combinazioni terapeutiche) ed a forti pressioni esterne; due in particolare: l'ampliamento della diffusione della sofferenza psichica e il nodo scorsoio del rapporto tra costi e benefici terapeutici. L'argomento di questo numero della rivista vuole, in tali frangenti, affrontare il tema fondamentale, tanto da un punto di vista teorico che clinico pratico, dei risultati e dei limiti delle attuali terapie psichiatriche. Riteniamo infatti che questo sia, proprio per la sua "criticità", il momento adatto per discutere sia quelli che possiamo considerare come dati acquisiti sulla efficacia delle terapie psichiatriche, sia quegli aspetti che ancora oggi ne rappresentano, vuoi per una modificazione-evoluzione delle stesse terapie, vuoi per la difficoltà degli obiettivi da raggiungere, i limiti. Vogliamo anche ricordare come, in questo particolare momento storico, la psichiatria sia "liberamente costretta" a dialogare con le altre discipline del sapere medico, in particolare con gli studi neurobiologici e psicologici ed inoltre come essa sia, ancora una volta, "liberamente costretta" a trovare una più intensa presenza e collaborazione con la medicina di base. Per confrontarci con il tema di questo numero, riteniamo utile avere in mente una serie di proposizioni il cui valore vuole essere, più che quello di filtro per la lettura dei diversi articoli, quello di fornire un ulteriore stimolo di discussione sull'argomento. 1) La valutazione dei risultati delle terapie psichiatriche può essere considerata equivoca, là dove, per equivoco, si intende un errore di attribuzione di significato, una interpretazione non corretta del risultato. Questo può riferirsi: a) alla valutazione erronea della effettiva efficacia delle terapie; b) alla magnificazione della pur effettiva efficacia della terapia - ma, tuttavia, efficacia limitata - con megalomanici caratteri di assertività assolutista. Da ciò deriva l'opzione etica di guardarsi dai risultati terapeutici, proposti sulla spinta di un esasperato personalismo. 2) La mancanza di un modello univoco della mente che stabilisca i criteri di relazione tra normalità e patologia fa sì che non si conoscano ancora, con chiarezza, le relazioni tra cambiamento, miglioramento e guarigione. Se è indubbio che la combinazione tra terapie somatiche e terapie psicologiche è quella che ottiene i migliori cambiamenti di alcune gravi patologie psichiatriche, è necessario studiare ancora e più a fondo il significato ed il valore di questi progressi, per poter incidere, in maniera più determinante, sulla sofferenza psichica che, sempre più frequentemente, pur mutando, rivela le caratteristiche della cronicità. 3) E' corretto tenere in mente due questioni: la prima è che, in psichiatria, si tenta di oggettivizzare qualcosa che per sua natura non è oggettivizzabile: la soggettività della psiche. La seconda è che forse, più che in altre discipline scientifiche, gli psichiatri non hanno lo stesso "common ground", cioè non perseguono gli stessi obiettivi terapeutici, utilizzano diversi metodi di conoscenza, applicano diversi mezzi per ottenere il cambiamento e, soprattutto, hanno una visione diversa dell'essere umano, che a sua volta si collega, come detto, ad un differente modello della mente. 4) La psichiatria ha bisogno di trovare un linguaggio unico che permetta, attraverso confronti chiari e diretti, di uscire da confusioni terminologiche, causa e conseguenza di confusioni concettuali. Basta pensare al termine depressione: impiegato come sintomo, come segno, come sindrome e come malattia e per riferirsi ad una condizione umana che va dalla infelicità alla demoralizzazione, alla tristezza vitale. 5) La professione psichiatrica pone, nell'ambito del suo agire, in maniera peculiare, il problema della relazione tra il ricercatore e la "cosa" da ricercare. Nella prassi psichiatrica l'oggetto della conoscenza forma il conoscente; se lo psichiatra non accetta la sfida di lasciarsi in-formare dall'oggetto da conoscere non è in grado di conoscere. Lo psichiatra deve essere capace di sviluppare una attenzione sul paziente, che gli permetta di acquisire tutti gli elementi necessari a costruire l'immagine diagnostica di quel determinato paziente ed a trasferire, in lui, quegli elementi ritenuti necessari a fare "fermentare" i pensieri utili per il cambiamento. Ciò significa che, più in ogni altra analoga professione, diventa momento metodologico-terapeutico centrale il "ben-essere" del terapeuta. In quanto da esso, forse più che da ogni altra cosa, dipenderà il risultato terapeutico.
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