Prefazione al N° 4
Alfredo Carlo Altamura
RIASSUNTO
Perché i "sintomi negativi" delle schizofrenie? I sintomi cosiddetti negativi descritti nei disturbi schizofrenici costituiscono, senza ombra di dubbio, uno degli argomenti di maggior fascino della ricerca attuale in Psichiatria ed in Psicofarmacologia clinica. Essi rappresentano anzitutto una sfida concettuale che ha rimesso in discussione i criteri diagnostici, prognostici e terapeutici delle schizofrenie. Inoltre, essi sono fortemente associati alle problematiche di gestione terapeutica ed ai costi diretti ed indiretti dei disturbi schizofrenici. In anni recenti, si è osservato un fiorire senza precedenti di studi volti ad un sempre maggior affinamento dei criteri diagnostici preposti al loro riconoscimento, classificazione, decorso e prognosi in funzione di variabili sia di tipo biologico che non-biologico (socio-ambientali). Si è, pertanto, giunti ad acquisizioni patofisiologiche assai innovative che si sono servite sempre più dei contributi essenziali venuti dalla psicobiologia, dalle neuroscienze e dalla neuropsicologia. La scelta di questo argomento è stata dettata, anzitutto, dal desiderio di sistematizzare in una trattazione relativamente omogenea alcuni aspetti qualificanti di tipo teorico riguardanti la loro realtà clinica. Ma allo stesso tempo si sono voluti analizzare gli strumenti e le modalità del loro riconoscimento e della loro valutazione nonché del loro trattamento in funzione di nuove ipotesi bio-patogenetiche. In un universo così composito come è quello dei sintomi schizofrenici con la loro ambiguità, polimorfismo, ed imprevedibilità di decorso e di risposta ai neurolettici convenzionali, il tentativo del DSM-IV di enucleare dei sintomi "negativi" ai fini diagnostici (che in modo più o meno apparentemente arbitrario costituirebbero un riferimento diagnostico più attendibile di altri) è stata impresa complessa e da ciò ne è risultata una suddivisione bipartita. Infatti, l'appiattimento affettivo, l'alogia e l'avolizione, sono considerate tra i criteri diagnostici del DSM-IV per la schizofrenia, mentre altri sintomi negativi considerati dalla letteratura internazionale non hanno di fatto altrettanto valore. Ciò può essere più o meno accettabile alla luce della nostra esperienza che tende a dare dei "pesi" diversi a sintomi singoli od a gruppi sintomatologici delle schizofrenie. Si assiste spesso da parte di tanti operatori psichiatrici impegnati quotidianamente con aspetti clinici come la difettualità schizofrenica o la farmacoresistenza al rifiuto di una rigidità di costrutti nosologici che possono apparire spesso troppo semplicistici o riduzionistici alla luce della complessità dei quadri clinici.Occorre, pertanto, innanzitutto cercare di capire il valore di certe scelte teoriche e la necessità di riagganciarle alla prassi clinica colmando un "gap" fra teoria e prassi che in questo come in altri settori della Psichiatria si crea su argomenti "nuovi" o perlomeno al centro di un costante sommovimento concettuale. In realtà, la filigrana che traspare in controluce esaminando quanto appare cristallizzato nei criteri nosografici è tutt'altro che un costrutto statico, ma altamente dialettico perché costituito dall'evolversi assai complesso di modelli teorici delle schizofrenie che vanno da uno bimodale o dicotomico (vedi Crow ed Andreasen dei primi anni '80) ad uno recente di tipo dimensionale. Difatti, quest'ultimo prevede tre dimensioni patologiche che evolvono in modo imprevedibile ed indipendente in ciascun paziente (anche se portatore di un certo sottotipo categoriale di fenomenologia schizofrenica) che sono alla base della eterogeneità e del polimorfismo caratteristici di questi disturbi (diversamente dai disturbi dell'umore). Occorre ricordare come dopo le prime descrizioni fatte da Kraepelin e Bleuler agli inizi del secolo i sintomi che oggi etichettiamo come "negativi" avessero un ruolo centrale nel quadro della dementia praecox e del processo schizofrenico. Il concetto di deficit e di difettualità come evento primario e qualificante ha subito una lunga eclissi culturale per alcuni decenni, soppiantato nell'interesse clinico dai sintomi positivi (Schneider con i suoi sintomi di "primo rango") che avrebbero costituito il cuore del disturbo schizofrenico. Solo verso la metà degli anni '70 si è assistito ad un risveglio culturale per la psicopatologia delle schizofrenie, come era nella proto-visione kraepeliniana e bleuleriana, con un fiorire di studi che da un modello categoriale un po' troppo semplificante di schizofrenie positive e negative si è evoluto verso l'attuale orientamento dimensionale, che meglio rende ragione della eterogeneità e complessità sintomatologica trasversale e longitudinale di questo gruppo sindromico. Un altro aspetto che rende questi sintomi oggetto di interesse è rappresentato dalle loro ipotesi patogenetiche neurochimiche che mal si conciliano con la teoria dalla iperfunzione dopaminergica che così come concepita negli anni '60 può spiegare i sintomi schneideriani più che quelli negativi. Ciò è rinforzato dagli studi neuromorfologici e neuropsicologici che fanno intravedere un ruolo per strutture cerebrali direttamente coinvolte nel finalismo comportamentale, volizione e cognitività quali certe aree corticali (corteccia pre-frontale) e sottocorticali (ad esempio l'ippocampo), con relativo coinvolgimento di mediatori chimici cerebrali diversi dalla dopamina. Infine, in questo fascicolo sono presi in considerazione il trattamento farmacologico e gli aspetti riabilitativi. Nel primo caso ci si trova di fronte ad una serie di evidenze che purtroppo depongono per una scarsa attività delle molecole antipsicotiche tipiche nei confronti di questi sintomi: al contrario la clozapina ed il risperidone sembrano essere più attivi così come certe molecole di prossima introduzione come il Sertindolo e l'Olanzapina. Del resto, mai come in questo ambito clinico l'utilizzo di un approccio realmente integrato tra una farmacoterapia innovativa, da un canto, ed una strategia riabilitativa individualizzata che si serva di precisi "screening" di tipo neuropsicologico, dall'altro, appare una via non solo percorribile ma assai promettente per una gestione più cognita e razionale delle problematiche connesse non solo ai sintomi negativi e deficitari, ma alla globalità del mosaico sintomatologico delle schizofrenie.
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